Erano tempi difficili. Lui era solo un bambino e la cosa che amava maggiormente era ridere. Una tra quelle che lo faceva
ridere tanto era giocare con me. Anche in quelle dure giornate di fine estate correvamo spesso nel cortile a far scappare
le galline.
Il vento tra i capelli, il profumo dei fiori e l'azzurro del cielo che si specchiava nei suoi grandi occhi vispi. Era un
bimbo coraggioso e ora che suo padre non c'era più gli toccava essere forte. Suo fratello, prima di andare con gli altri sul
monte gli aveva dato una pacca sulla spalla e, con un sorriso dolce, gli aveva detto che tutto sarebbe finito presto.
Quel
giorno l'aria era piuttosto fresca. I partigiani sul Grappa resistevano e Don Nicolino dava loro una mano. Grand'uomo
quel don, chissà se ce ne sono ancora di grandi come lui. Non troppo alto, con le mani ed il viso provati dalle disgrazie di
quei tempi, ma con una forza nella voce e nei gesti che anche quelli con la voce dura e la divisa scura, anche loro, non
potevano che rispettare la sua forza. Alle loro minacce lui rispondeva sempre con uno sguardo più forte, come se gli
schiaffeggiasse.
Quella mattina Don Nicolino lo fece chiamare e gli consegnò una lettera per Mario: "s'è importante",
disse. Lui fece un cenno con la testa, la prese e la mise in tasca. Nelle sue mani quella lettera sembrava grande e
pesante.
C'erano troppi soldati in giro. Si muovevano per le campagne e avevano presidiato il paese. Alcuni avevano un
grande foglio che ispezionavano con attenzione. Con cautela riuscimmo a evitare di essere fermati... Piano, in silenzio,
passi leggeri, anche il respiro tremava... E poi via. Finalmente. Chissà cosa stavano tramando. Ci allontanammo
velocemente e lo vidi sorridere. No! Eccone altri, bloccano la strada! Che fare? Sono tanti. Il sorriso si tramutò in una
smorfia. Al bivio... Ma così allunghiamo di tanto! Non ci sono alternative, slittiamo sul selciato e corriamo.
Il vento ci
affaticava e la carrozzeria scricchiolava. I suoi piedi non arrivavano con facilità ai pedali ma con la punta delle scarpe
spingeva forte. Lo sentivo ansimare e soffrire per i muscoli che tiravano sempre di più ad ogni pedalata. Diavolo, erano
vicini! Corri corri corri! Scivolavamo sulla brecciolina ed io cominciavo ad essere pesante. Sì, finalmente la strada si
faceva in discesa. Teneva forte il manubrio che vibrava sotto le sue mani. Potevamo arrivarci. Ecco, ancora poco.
Ce
l’avrebbe fatta ad arrivare là dove non l’avrebbero più preso, dove sarebbe scomparso tra gli alberi insinuandosi nel
nascondiglio che tante volte avevamo visto insieme e che lui stesso aveva aiutato a scavare e a coprire con quanti più
rami le sue esili braccia potevano portare… ma ce li trovammo davanti, erano già lì a fare mattanza.
A nulla servì
lasciarmi per terra e cercare di nascondersi dietro un masso che il Grappa sembrò mettergli accanto per dargli una
mano, per proteggerlo. Uno si voltò, vide i rami muoversi e poi più nulla. Non c’era più luce nei suoi occhi.
Eravamo
sfuggiti ad altri pericoli… ma quel rastrellamento lì portò via tutti. Sono caduta accanto ad un albero e sono rimasta lì, a
piangere il suo sangue che il monte presto assorbì. Dormiva, coperto di rosso vermiglio...
Sono rimasta lì a guardarlo
fino a quando qualcuno non l’ha portato via. Oggi l’albero mi ha fatta sua, mi ha presa nel suo tronco, mi ha raccolta da
terra e ora faccio parte del Grappa anche io. Ora, anche io, sono rossa e il rosso mi divora ogni giorno di più. Non ero
altro che la sua bicicletta, ora sono un monumento al suo ricordo che chissà se chi passa, tra le tante foto, serba ancora.
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